CURIOSITA'

STORIA
DISCOGRAFIA

 

 

 

L'INCONTRO FRA DI CIOCCIO E MUSSIDA

FRANZ - Negli anni Sessanta suonavano un po' tutti ed era facile mettersi insieme per fare spettacoli alle feste.
La prima formazione di una certa durata che ho formato si chiamava "Black Devils", classico nome esterofilo da principiante. Con me c'erano Pino Favaloro, che cantava, Tony Gesualdi al basso e Augusto Lo Basso, che ci lasciò quasi subito, al sax.
Poi se ne andò anche Gesualdi e a lui subentrò Giorgio Piazza. Stava con i Bags Grow, insieme a Demetrio Stratos e ad alcuni musicisti inglesi che venivano ingaggiati di volta in volta. Un bel giorno a Demetrio offrirono di andare con i Ribelli di Adriano Celentano e Piazza venne con noi. Con lui legavo molto perché era un tipo estremamente simpatico, pieno di vita.
Nel 1964 fummo contattati da un cantante che in quel periodo aveva un discreto successo, Gian Pieretti. Ci offrì di diventare il suo gruppo, ovvero I Grifoni. Ma ci mancava un chitarrista, allora Gian Pieretti ci disse: "Io conosco un ragazzo molto bravo, secondo me potrebbe andare bene per voi."
Telefono a questo chitarrista, Franco Mussida, e ci diamo un appuntamento. "Guarda" gli dico, "io sono vestito strano (allora si usava la parola strano)." In realtà vestivo alla beat, con indumenti smessi e colorati.
Franco mi diede qualche indicazione di sé, parlando anche di giacca, cosa che lì per lì mi stupì, ma poi non ci pensai più.
Quando entrai nella trattoria del padre di Gian Pieretti, il luogo prefissato per l'incontro, mi guardai intorno e non credetti ai miei occhi. Non poteva essere lui… Era l'unico in piedi, con l'aria di essere lì ad aspettare qualcuno, ma sembrava una persona perfettamente normale, con un abito in terital grigio, un tessuto sintetico che allora furoreggiava tra le persone per bene. Insomma, niente a che fare con un musicista, per lo meno con quello che io intendevo per musicista. Inoltre dimostrava più anni di quelli che aveva. Dunque ero molto perplesso, ma il bello era che lo era anche lui. Anni dopo me lo ha confidato. Gli sembravo un pazzo, mi ha detto, uno scatenato coi capelli lunghi e la barba da bandito, insomma uno fuori di testa. Così abbiamo passato un bel dieci minuti a studiarci. Continuavamo a guardarci intorno perché ognuno dei due sperava di vedere entrare qualcun altro. A un bel momento mi si piazza davanti.
"Non sarai mica..."
"Non sarai mica..."
Ci salutiamo: "ah bene… piacere… piacere" diciamo, ma dentro di me pensavo: "Oddio qui siamo finiti, se dobbiamo fare un gruppo con gente così..."
Comunque mi faccio coraggio: se bisogna conoscersi, mi dico, tanto vale... e gli chiedo di farmi sentire qualcosa. Rimediamo una chitarra, ma aveva solo quattro corde.
"Ma cosa vuoi che suoni" dice lui, "ne mancano due!"
"Non importa, non importa, suona lo stesso!"
Lo fece. E lo fece così bene che ci riconciliammo subito.

FRANCO - L’incontro con Franz è, come si dice, uno di quegli incontri karmici.
Un amico mi aveva procurato un appuntamento per un’audizione per i Grifoni di Gian Pieretti (1967). L’appuntamento era in via Circo, una vietta del centro di Milano. Vedo un paio di ragazzi, uno lungo allampanato (Pino Favaloro), l’altro pelle liscia occhi azzurrissimi (Franz), che mi guardano. Mi avvicino, partono presentazioni e domande e dopo pochi minuti siano nella trattoria di Gian Pieretti, una trattoria toscana dove il profumo della trippa e della ribollita si mischiava a quello della spuma e del vino. Tra i due Franz è quello che non sta più nella pelle per sentirmi suonare. Cerca concitato una chitarra, la trova, arriva pieno di entusiasmo e me la dà. "Dai, suonaci qualcosa", dice. Io guardo la chitarra: ha solo tre corde! "Ma cosa suono con tre corde?" "Non so, facci sentire qualcosa" insiste Franz. Così. Dopo aver accordato le corde rimaste, improvviso un accompagnamento estemporaneo. Tanto basta per mandare in visibilio gli amici, ma soprattutto Franz che mi prende a pacche sulle spalle. Così ci ritrovammo insieme credo più per un’intuitiva percezione del compiersi di un destino comune, che per il risultato musicale in se e per se. Di una cosa oggi sono sicuro, quella sua faccia pulita e quegli occhi dall’espressione intensa mi comunicavano qualcosa che aveva a che fare con la voglia di non conformismo, di fuga dal normale, una specie di voglia di uscire dal ghetto alla ricerca di avventura. Ed era proprio quello che cercavo, uscire dal mio ghetto di periferia, una voglia comune alla sua. Così con tutta la mia timidezza e le mie paure, non ho avuto il minimo dubbio a intraprendere quella strada che ci ha visti insieme per decine d’anni.

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I QUELLI

Franz e Franco era già insieme nei "Grifoni". Accompagnarono per qualche tempo Gian Pieretti, ma già da allora erano ansiosi di imparare cose nuove. Provavano spesso pezzi americani come, per esempio, quelli degli Yardbirds. Dai e dai, svilupparono un sound tanto vicino a quello dei Birds che la Ricordi propose loro di fare una cover del celebre brano di Bob Dylan: Mr Tambourine Man (già eseguito proprio dai Birds).

Tuttavia "I Grifoni" rifiutarono, perché volevano impegnarsi nella scrittura di musiche loro, come la canzone "Via col Vento", scritta da Franco, ben accolta sia dal pubblico che dalla critica.
Si stavano evolvendo e, per dare una svolta alla loro carriera, abbandonarono il nome araldico di Grifoni per qualcosa di più personale. Ma in campo musicale, e non solo, l'esterofilia era ancora la regola. Così decisero per "I Quelli", più che altro perché all'epoca andavano molto i Them, gli Who e tanti altri. I nomi andavano per filoni: in Italia imperversavano ancora gli animali (I Camaleonti, I Corvi...) mentre all'estero i pronomi. Così dato che già c'erano "I Loro" e "I Chi", i nostri amici hanno deciso, con grande originalità, di chiamarsi "I Quelli".

FRANZ - Già allora avevamo una caratteristica che, curiosamente, sarebbe emersa in seguito anche nella PFM: una forte propensione più per la parte strumentale che per quella vocale.
La prima voce fu affidata al chitarrista ritmico PINO FAVAROLO. Io cantavo direttamente dalla batteria, seguendo lo stile dell’epoca insieme a Franco che interveniva nei cori. In seguito si aggiunse un personaggio che allora, ovviamente, non era ancora famoso: Teo Teocoli.

Fu con lui che centrarono il primo successo: "Una bambolina che fa no no no", una canzone di Michel Polnareff. Sul retro del 45 giri c'erano "Non ci sarò" e "I Cant' Let Go", degli Hollies.

FRANCO - I Quelli sono stati la mia "gavetta", il mio apprendistato. Otto ore con lo strumento in mano tutti i giorni e la costruzione di un repertorio che andava al di là dei tanghi e dei walzer di prassi. Sono stati un esercizio di costanza che ha contribuito a farmi scegliere di fare il musicista. Di giorno infatti lavoravo alle poste come fattorino che mi avevano offerto l’assunzione definitiva, il posto fisso statale. Il miraggio della maggior parte dei lavoratori. Rifiutai per una paga di sole 2.000 lire al giorno (1968!) tanto prendevamo singolarmente con I Quelli a Genova. Poi il primo disco e la mia prima composizione (Via col vento). Il nome si faceva sempre più solido. Si arrivò a suonare al Pipes di Milano dove ci fu l’innesto, per un breve periodo, di Teo Teocoli. Poi il nostro produttore Ricki Gianco ci propone di fare una cover francese, La Bambolina che fa no no. Il successo arriva subito e inaspettato come inaspettata arriva pochi mesi dopo la chiamata di leva che mi porterà per due anni per i mari del mondo. Pensavo fosse un capitolo chiuso quello del gruppo. Nel salutarci dissi loro di andare pure per la loro strada: due anni erano lunghi. I Quelli in quel periodo senza di me fecero altre cover e altri successi. Ma alla fine dei due anni, con mia grande sorpresa, erano tutti li ad aspettarmi. Franz in testa. Non si voleva proprio spezzare quella linea del destino che insieme ci avrebbe portato prima ai Krell ed infine alla PFM. teocoli.jpg (49086 byte)

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L'INCONTRO FRA I QUELLI E FLAVIO PREMOLI

Teo lasciò "I Quelli" molto presto per proseguire la sua carriera con il Clan di Celentano. S'imponeva un momento di riflessione e i nostri amici, più interessati alla musica che alla voce, decisero di inserire nel gruppo un altro strumentista. La scelta cadde su un tastierista di cui tutti nell'ambiente musicale milanese dicevano un gran bene, Flavio Premoli. Veniva da Varese e aveva vinto il campionato mondiale di fisarmonica. Scherzando si parlava di lui come 'Le dita più veloci delle tre valli varesine', ma ci si poteva tranquillamente aggiungere anche la Brianza, Clusone e tutto il Nord Italia... A parte gli scherzi, era un vero ragazzo prodigio, solo che aveva diciassette anni e ne dimostrava molti di meno. Sembrava un bambino e, ironia della sorte, suonava in un gruppo chiamato "I Cuccioli".
FLAVIO - In quel periodo Varese incominciava a starmi un po' stretta, quindi decisi di trasferirmi a Milano. Volevo entrare nel giro professionale e riuscii quasi subito incontrando Ricky Maiocchi. Con lui guadagnai il mio primo cachet da professionista e cominciai a girare i locali milanesi (Santa Tecla, Pipes...) Fu proprio al Pipes che incontrai Franz. I Quelli stavano cercando un tastierista quindi Franz mi propose di fare un provino per loro. Ci rivedemmo sempre al Pipes. Mi ricordo che suonai e cantai "Una ragazza in due", una canzone dei "Giganti", e presi una stecca pazzesca...
FRANZ - Si presentò con il padre. Questi fortunatamente non si fece impressionare dal mio aspetto e, forse confortato dalla presenza del "normalissimo" Franco, vide che la situazione era bella, che il gruppo funzionava. Noi avevamo le nostre belle serate un po' dappertutto, molte date già pronte, quindi decise di fidarsi di noi e ci affidò Flavio... Così cominciammo a suonare insieme.
Poco dopo Mussida dovette lasciare il gruppo per andare a prestare il suo doveroso servizio allo stato. Ma gli andò male: marina militare, due anni di ferma. Lo sostituì Alberto Radius e con lui "I Quelli" parteciparono al "Disco per l'estate" del 1967, con esiti per nulla lusinghieri.

cittab01.jpg (35798 byte) L'atmosfera dello scenario musicale italiano stava loro sempre più stretta. Scalpitavano al pensiero di quanto stava accadendo in Inghilterra e oltreoceano. Erano i tempi di Jimi Hendrix, dei Jefferson Airplane, dei Pink Floyd. In Italia si suonava ancora nelle balere.

 

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HAMMOND

FLAVIO - Ho scoperto l'organo Hammond nel 1968. Abitavo con Alberto Radius, più vecchio di me da qualche anno. Fu lui ad "iniziarmi" allo studio di quello strumento magnifico. Trascorrevo molte ore ascoltando Jimmy Smith, il più grande organista blues mai esistito. Ha fatto scuola a tutti gli organisti della mia generazione. L'unico vero handicap dell' organo Hammond era il costo: ci volevano oltre due milioni di lire, l'equivalente di un monolocale.
FRANCO - L’organo Hammond era davvero uno strumento innovativo negli anni ’60. L’avevo sentito suonare svariate volte ma non con la passione e la grinta necessaria per far suonare lo strumento in modo non sdolcinato. Come sentii Flavio suonare capii subito che lo strumento era sotto il suo completo controllo, non solo per la sua tecnica peraltro notevole, ma per la naturalezza con la quale gestiva le diverse sonorità dello strumento. Aveva dell’incredibile vedere un ragazzino imberbe buttarsi con tanta grinta sullo strumento.

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VERSO IL PROGRESSIVE

I Quelli erano sempre impegnatissimi, ma sfondare non era per niente facile. In Italia, per tutti gli anni Sessanta, il successo di un artista passava sostanzialmente per la sola canzone d’evasione.
Chi aveva mantenuta intatta la voglia di tenere duro lasciandosi contaminare dalle novità, verso la fine dei Sixties stava però per imbattersi nel periodo musicale più bello dopo la rivoluzione dei Beatles. Era la nuova onda della musica progressiva, o rock progressivo, poi etichettato sotto il termine, peraltro improprio, di "pop". In questo tipo di musica confluivano influenze classiche, jazz, di musica popolare, di rock - nei suoi molteplici aspetti - e di quel filone impregnato di romanticismo che affonda le proprie radici nelle ballate folk irlandesi e americane. Insomma, era il momento in cui si potevano rimescolare le carte e giocare una nuova partita.  I Quelli continuavano a non avere un cantante di ruolo e seguivano la regola: "Il pezzo lo canta chi che lo fa meglio". A tutto ciò aggiungevano una spiccata propensione al solismo e alla cura maniacale delle parti musicali e degli arrangiamenti. Quindi, erano un gruppo che creava non poche difficoltà, perché suonavano bene, ma con le canzonette avevano sempre meno da spartire. Ciononostante, o forse proprio per questo, si sono affermati alla svelta come il quartetto di strumentisti più affiatato del panorama musicale dell’epoca.
Franz - Cominciammo a frequentare sempre più spesso le sale di registrazione collaborando con gli artisti più importanti: Battisti, Mina, De André e tanti altri. Insomma, senza neanche rendercene conto, avevamo preso una strada molto americana, quella della dura gavetta da session man.
Il risultato di questa impostazione si vide con chiarezza al Cantagiro del 68, al quale partecipammo con una canzone orrenda: arrivammo ultimi pur avendo piazzato, come esecutori, otto brani tra i primi dieci in classifica.
I Quelli continuarono nella loro ricerca, pensando anche alla possibilità di aggiungere qualcosa di nuovo… Magari un altro musicista.

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L'INCONTRO CON MAURO PAGANI

FRANZ - Una sera del '69, in un locale di Brescia - il Paradise -, mi imbatto in uno dei suoi frequentatori abituali: Marco Damiani, che sarebbe poi diventato il primo sound engeener della PFM. Era un bassista con la passione per le percussioni e per il nuovo rock degli ultimi dischi inglesi. Fu Marco a segnalarmi il nome di un musicista dell’area bresciana che, secondo lui, aveva una spiccata personalità ed una particolarità non indifferente: era un polistrumentista. Suonava il flauto ed il violino ma questi strumenti non lo avevano allontanato affatto dalla musica rock, anzi. Non fu difficile rintracciare Mauro Pagani per combinare un incontro. "Io ho i capelli molto lunghi" disse Mauro, "una camicia bianca e un paio di jeans."Io ho la barba" risposi, "i capelli fino alle spalle e sembro un po’ Jesus Christ." Quasi un replay dell'incontro con Franco. L’appuntamento fu sulla spiaggia di Spotorno.
Era l’estate del '69 e nonostante la folla non ci mettemmo più di cinque secondi a riconoscerci.
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LA CITRONA

FRANZ - la Citrona fu in pratica una creazione di Franco, che era un patito di automobili.
Aveva un amico meccanico che vendeva le Citroen mezze disastrate o rimesse a posto alla bella e meglio.Il grande vantaggio stava nel fatto che si potevano cambiare tutte l e parti della carrozzeria.
In questo modo " Citrona" si trasformava continuamente diventando ben presto la celebre " Citrona Arlecchino", riconoscibile da chiunque perché aveva il muso rosso, la portiera nera, l'altra portiera arancio, la chiappa blu e cosi via, a rotazione, a seconda dei periodi e delle opportunità.
Sempre uguale e sempre diversa, era il nostro biglietto da visita: quando eravamo in un posto lo sapevano tutti.

FRANCO - I concerti della PFM crescevano di numero e di conseguenza i chilometri da fare. Passato il periodo dei Quelli e del 238 Fiat, dove oltre che i musicisti dovevamo fare anche i tecnici ed i facchini, eccoci ad una fase dove noi si viaggiava insieme ed i tecnici (due amici) ci montavano gli strumenti e ci facevano il missaggio. Non c’era all’epoca macchina più comoda della Citroen, così proposi l’acquisto di una DS 19 usata. Ne abbiamo fatti di chilometri con quell’auto ed ogni volta che prendeva una botta c’era il problema di sostituire un pezzo di carrozzeria. E pian piano, con l’aiuto di un mio amico meccanico, abbiamo costruito una macchina dove quasi ogni componente della carrozzeria era di un colore diverso: parafanghi posteriori blu, cofano posteriore carta da zucchero, capote argentata, cofano anteriore verde pisello, parafanghi anteriori azzurri, portiere laterali tagliate in due da una striscia obliqua, metà verdina e metà arancio vivo. Così è diventata la Citrona!

citron01.jpg (22709 byte) Eravamo la manna per le pattuglie della Polizia che ogni volta che ci vedevano ci fermavano, come se i delinquenti per spostarsi usassero mezzi così appariscenti! Le gioie della Citroen erano i viaggi comodi, i dolori i problemi frequenti all’impianto idraulico. Ho sempre voluto guidare io, fondamentalmente perché non mi fidavo degli altri. Abbiamo percorso almeno una decina di volte la distanza tra la Terra e la Luna. Solo due incidenti. Una gomma esplosa a 160 Km l’ora, in autostrada (Citroen): riesco a tenere la macchina in strada, scendo con le gambe tremanti mentre gli altri si rifugiano nel prato in preda ad una crisi di riso isterico.

L’altro incidente (Citroen GS personale) sempre in autostrada, Varese-Milano, quando un pazzo prende la corsia contromano, si accorge dell’errore e si mette di traverso per fare manovra.
Mi butto sul guard rail e riesco a urtare solo la parte anteriore della macchina di questo sprovveduto (con moglie e figlio). Ce la caviamo tutti senza un graffio ...ma con la mia macchina distrutta!.

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